La facilitazione è l’attività centrale di un processo di democrazia partecipativa e corrisponde all’intervento di una figura esterna chiamata a gestire in modo efficace l’interazione fra i partecipanti.
Romano, I. (2013). Facilitation. In I. Casillo, R. Barbier, L. Blondiaux, F. Chateauraynaud, J.-M. Fourniau, R. Lefebvre, C. Neveu, & D. Salles (Éds.), Dictionnaire critique et interdisciplinaire de la Participation, DicoPart (1ère édition). GIS Démocratie et Participation.
https://www.dicopart.fr/facilitation-2013
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Il termine “facilitare” indica l’azione di attivare e rendere fluida la comunicazione fra una varietà di persone che, per loro stessa natura, sono portatrici di sensibilità, capacità espressive e cornici culturali diverse. Si ricorre alla facilitazione per aiutare il gruppo ad utilizzare le occasioni di dialogo che si presentano in un percorso partecipativo in modo che siano produttive, vale a dire evitando le frustrazioni o le perdite di tempo tipiche degli incontri non strutturati, come ad esempio le assemblee pubbliche. In quelle occasioni parlano sempre gli stessi, il clima è annoiato e lo spazio per costruire insieme delle proposte è praticamente inesistente. Invece nelle sessioni di lavoro di un processo partecipativo facilitato il clima è produttivo, tutti possono esprimersi e si producono dei risultati.
Le ragioni che spingono gli organizzatori di un processo a ricorrere alla facilitazione possono essere di varia natura ma generalmente sono accomunate dal proposito di garantire che una data conversazione si svolga in modo fluido e democratico, vale a dire riducendo le asimmetrie informative e gli squilibri nella capacità espressiva dei partecipanti. Le situazioni tipiche sono quelle di gruppi al cui interno sono rappresentati punti di vista diversi su un dato problema o partecipano individui potatori di “saperi” e linguaggi diversi (ad esempio tecnici, abitanti, funzionari pubblici, attivisti e così via).
Quali sono gli ingredienti fondamentali
Esistono tre elementi chiave per facilitare l’interazione all’interno di un gruppo: favorire l’ascolto attivo fra i partecipanti, suscitare un confronto basato su argomenti e attingere ad una solida base informativa.
L’ascolto attivo è la predisposizione che ci rende possibile ascoltare il nostro interlocutore tenendo conto della cornice personale dalla quale egli osserva il problema (che necessariamente sarà diversa dalla nostra), che dipende dalla sua cultura, esperienza e condizione. L’ascolto attivo è fondamentale se si vuole andare oltre la semplice equazione “A ha ragione = B ha torto”. Chi facilita un gruppo deve anzitutto aiutare i partecipanti ad ascoltarsi attivamente, mettendo in evidenza la legittimità di tutti i punti di vista, ed esortando ciascuno ad accantonare temporaneamente le differenze per concentrarsi sulle ragioni dell’altro.
Il confronto basato su argomenti è lo scambio che si sviluppa quando i partecipanti esprimono, oltre che la loro opinione, le ragioni che li hanno portati ad adottarla. Questa dinamica viene favorita se il facilitatore riesce a far abbandonare temporaneamente il linguaggio difensivo con cui di solito si sostiene un’idea (per il si o per il no ad una certa proposta, per esempio) e a rendere pubblici i rispettivi interessi, ricorrendo ad argomenti di interesse pubblico. In questo modo i pensieri dei partecipanti risultano più comprensibili e in taluni casi condivisibili.
In ultimo una buona interazione si sviluppa quando la discussione si allontana da una dissertazione sui principi generali – che spesso rimandano a posizioni fisse e immutabili - per esaminare il problema su un piano pratico e sostanziale. Questo è particolarmente importante se il processo partecipativo riguarda un tema con forti ricadute tecniche, come per le politiche pubbliche che riguardano l’uso del territorio e che impattano sull’ambiente (in particolare, la localizzazione di strutture indesiderate come inceneritori, prigioni o persino luoghi di culto, e la costruzione di grandi opere come autostrade, linee ferroviarie, aeroporti ecc.).. Per aiutare il gruppo a discutere “nel merito” il facilitatore può ricorrere ad alcuni dispositivi: la lettura di materiali informativi, l’intervento di esperti, la presentazione di dati e così via.
Se questi elementi sono ben miscelati e la comunicazione scorre in modo fluido si ottiene un risultato importantee spesso inatteso dagli stessi partecipanti: l’apprendimento. In questo modo la facilitazione riesce ad accompagnare il gruppo ad andare oltre la semplice consultazione delle preferenze (che si limita a far scegliere fra proposte preconfezionate e poste in alternativa fra loro) per aiutarlo ad esplorare collettivamente il problema e a cercare possibili soluzioni per affrontarlo.
Qual è il ruolo del facilitatore
Gli elementi sopra descritti sono il frutto di una forte interdipendenza, sia fra i partecipanti all’interno del gruppo sia fra il gruppo e il facilitatore stesso. Quindi, per evitare il caos, è necessario che chi conduce la discussione abbia alcune caratteristiche che lo aiutano a svolgere una funzione di guida: consapevolezza, capacità di uso delle tecniche ed una buona dose di esperienza.
Anzitutto il facilitatore deve poter esplicitare fin da subito le regole della discussione, concordandole con i partecipanti, per condurre la sessione facendo in modo che esse siano rispettate. Agisce inoltre come “garante” di tutti i punti di vista. Infatti, per poter essere efficace, il facilitatore deve guadagnare la fiducia del gruppo nella sua capacità di tutelare l’interesse collettivo: solo così gli sarà possibile tenere ferma la barra della discussione su obiettivi precedentemente concordati.
Tanti stili per diversi esiti
Oltre ai principi di base, l’attività di facilitazione si deve adattare allo scopo del processo e, a seconda degli strumenti di partecipazione, deve essere orientata alla produzione di un determinato esito. Per esempio il gruppo può essere chiamato all’esplorazione di un argomento (brainstorming), all’approfondimento di un tema (focus group), alla costruzione di scenari futuri (tecniche di visioning), alla precisazione dell’opinione dei singoli partecipanti (deliberative polling), al chiarimento delle opinioni presenti nel gruppo (conflict spectrum), alla deliberazione intorno a delle priorità (electronic town meeting, giurie dei cittadini) e così via. In questi diversi casi l’attività di facilitazione assume lo “stile” adeguato e si adatta alla tecnica scelta e all’esito da perseguire.
Spesso nei casi evocati si ricorre anche ad altre figure di staff, come animatori, esperti, facilitatori d’area ecc. Il valore aggiunto della facilitazione, rispetto a queste altre figure che possono avere funzioni più organizzative o informative, è di aiutare il piccolo gruppo nello svolgimento della discussione, favorendo l’emersione di opinioni e proposte anche diverse tra loro senza che entrino in contrapposizione diretta. In questo modo la facilitazione può anche anticipare e ridurre i fenomeni di escalation del conflitto, che tipicamente si verificano quando il dialogo e l’ascolto reciproco sono assenti.
Vediamo due casi diversi tra loro
Se il facilitatore si trova a condurre un piccolo gruppo nell’ambito di un deliberative polling su un tema “caldo”, come ad esempio un conflitto territoriale su una grande opera, allora dovrà assumere un stile “minimalista” (per usare l’espressione di Bob Luskin e James Fishkin, i padri del DP). Lascerà che i partecipanti svolgano fluidamente la loro conversazione, limitandosi a moderare l’incontro e, solo in rari casi, fare delle precisazioni fattuali in modo indiretto – ossia riferendosi ai materiali informativi distribuiti in precedenza. L’obiettivo di quel tipo di interazione infatti non è di guidare il gruppo verso un risultato collettivo, ma di consentire la contaminazione fra gli argomenti e le opinioni dei partecipanti – per esempio a favore o contro l’opera –, creando le condizioni affinché ognuno possa eventualmente precisare la propria opinione, che verrà successivamente registrata con un questionario individuale.
Se invece prendiamo in esame una situazione speculare, in cui il facilitatore si trova a condurre un gruppo per la costruzione di scenari futuri (usando uno strumento di visioning, come per esempio la Future Search Conference) il facilitatore avrà un ruolo molto più “strategico”. Dovrà infatti accompagnare il gruppo con un’azione di “sheparding”, (la conduzione che il pastore fa del suo gregge, come usa chiamarla il facilitatore americano Bob Stein), sostenendolo in un percorso crescente di progettazione collettiva, che parte dalla consapevolezza di essere una “comunità indagante” per arrivare a definire insieme il futuro desiderabile. L’esito dell’interazione infatti non si misura, in questo caso, sulla soddisfazione collettiva o sulla registrazione dell’opinione individuale, ma sulla capacità che il gruppo avrà avuto nel produrre un’idea condivisa di futuro. In questo secondo caso, oltre a favorire un’interazione efficace, il facilitatore dovrà essere in grado di proporre al gruppo obiettivi progressivi, delimitando e rafforzando il grado di condivisione ottenuto in ogni fase, senza forzare il percorso ma seguendo la naturale evoluzione del gruppo nel consolidare il suo common ground.
Prima e dopo
La gestione dell’interazione, infine, non si limita alla conduzione dell’incontro ma inizia dalla progettazione del setting (il modo in cui le persone stanno in uno spazio) e termina con la produzione del risultato. Le tappe che si susseguono, prima e dopo la facilitazione vera e propria, sono altrettanto importanti e riguardano: l’invito a partecipare, la predisposizione delle informazioni, la scelta di un luogo adeguato e favorevole allo scambio e, dopo l’interazione, e la raccolta dei risultati attraverso un rapporto conclusivo.
Il termine facilitazione viene spesso confuso con altre parole quali: moderazione (che si limita a dare la parola ai partecipanti), consultazione (la scelta tra alternative esistenti), comunicazione (che è solo una condizione di partenza), mediazione. Quest’ultimo termine, al fine di evitare malintesi che sono molto comuni, merita una spiegazione a sé stante. La mediazione (pubblica) non è un’attività di facilitazione perché non si esercita nel corso di un’unica conversazione. Si tratta invece di un processo volto ad accompagnare un gruppo di persone nella ricerca della soluzione ad una controversia. Il processo di mediazione implica naturalmente anche dei momenti di discussione di gruppo, che devono essere facilitati, ma sostanzialmente si esplica a più livelli: nella conduzione del processo e nella costruzione delle condizioni che progressivamente possono aiutare il gruppo a generare common ground (spazi di condivisione).
A volte il termine facilitazione viene anche scambiato con quello di “conduzione di un percorso partecipativo”, di cui invece è solo un tassello.
Gli effetti della facilitazione sulla partecipazione sono misurabili generalmente con due parametri fondamentali: 1- il tempo risparmiato; 2- la qualità degli esiti prodotti. Oltre a questi si può anche osservare anche il fenomeno, più difficilmente misurabile, del miglioramento delle relazioni e del clima di lavoro, che diventano progressivamente più distesi, collaborativi, spesso amichevoli.
A differenza del i processi partecipativi non “facilitati” in cui molto spesso il tempo viene sprecato, gli esiti sono modesti e il clima di lavoro è teso e competitivo.